di Graziella Atzori

La predilezione degli archivisti sta nell’andare a spulciare notizie anche minime nelle pieghe della Storia. Attraverso i particolari e i dettagli riesumati nei documenti, i loro studi ci aiutano a conoscere meglio la complessità degli eventi del passato, per capire il nostro presente, ciò che l’ha determinato e come. Spesso è il particolare desunto dalle abitudini quotidiane che illumina la situazione generale.
Viviamo nella società dei consumi spinti, siamo anche troppo proiettati sulle cose; esse ci dominano, invece di essere noi ad usarle per il nostro bene reale. Da dove viene tutto ciò? Come e quando è iniziato ad accadere?
Ho ricevuto un bel quaderno del Centro Studi Economico Politici “Ezio Vanoni” di Trieste, il cui presidente è il professor Raoul Pupo. Si tratta dello studio molto accurato compiuto dall’economista, storico e scrittore dottor Alberto Luchitta, dal titolo “Consumi quotidiani dei ceti aristocratici nel secolo XVIII”. I materiali consultati provengono dall’Archivio Stati Provinciali di Gorizia, dall’Archivio storico Istituto Sant’Orsola, Gorizia, dal fondo Caiselli, dal fondo Perusini dell’Archivio di Stato di Udine.


Il tema riguarda in modo predominante – ma non solo – i consumi alimentari dei nobili friulani, in modo specifico delle casate Strassoldo e Colloredo, inoltre del monastero delle Orsoline a Gorizia.
Come si nutriva la nobiltà nel Settecento? Ciò che allora era appannaggio di una classe privilegiata oggi è accessibile alla maggioranza delle persone nel nostro Primo mondo. Eppure non siamo felici.
Dai taccuini delle spese minute delle famiglie signorili si nota che la carne era la spesa alimentare preminente; essa copriva circa un quarto del totale delle spese alimentari. La stessa cosa accadeva nei monasteri, equiparati per importanza e per esercizio del potere alla nobiltà. Il pane e il vino stavano abbastanza indietro in percentuale. Non si trattava soltanto di una scelta salutistica ma, secondo quanto ne scrive un esperto in materia, Massimo Montanari, «La carne fresca era segno di privilegio sociale. I ceti subalterni si nutrivano in genere di carne salata».
Il cereale predominante era l’orzo, ma venne incrementata la produzione di mais (specie nel monastero goriziano) e nella seconda metà del secolo quella del riso. Gli aristocratici godevano di una dieta variata e completa, comprensiva di cereali, frutta e verdura; i popolani consumavano un cibo povero, spesso con predominanza di un alimento; ciò provocava malattie da carenze nutrizionali, come la pellagra, con l’uso quasi esclusivo di polenta.
Al desco dei Colloredo erano molto presenti i funghi, meno in quello degli Strassoldo, più raffinati, anche maggiori consumatori di pesce pregiato come il salmone. I pesciolini di fiume non mancavano, procurati dai pescatori sul posto.
Nelle spese stilate non sempre venivano separate quelle relative alla servitù da quelle padronali; non è possibile quindi sapere se anche i nobili gustassero l’universale “panada”, o minestra di pane, o il “brodo brustolado”. Forse no… Si trova già enumerata la spesa di rape, per la preparazione della famosa “brovada” friulana; meno diffusi i “crauti”, cappucci garbi, consumati nel territorio triestino, presenti anche nel menù dei principi Torre e Tasso.
Ciò che univa tutte le classi sociali erano le uova, acquistate giornalmente in gran numero dai nobili (i quali dovevano mantenere parecchia servitù), per “ligar orzo e frittura di tola”, “ovi e pesse”, “fatti con chioccolata”, “ovi per tola sera e mattina”.
Nel complesso, nella prima metà del secolo si nota un regime di vita abbastanza rustico e spartano, legato all’economia agricola e ancora di stampo feudale.
Il conte Nicolò Francesco Cesare Strassoldo fu quello più spendaccione e dedito ai piaceri.
Nella seconda metà del secolo XVIII si assiste a un allargamento dei consumi, unito all’inflazione con aumento generale dei prezzi. Consumi non solo alimentari, anche di stoffe pregiate, spezie, cineserie, vasellame, beni e alimenti voluttuari.
Come nel resto d’Europa, la contea registra un fermento, un godimento epicureo, legato alla residenza in città, a Gorizia, dove Nicolò Strassoldo affitta una villa. Siamo nella civiltà salottiera, ricca di incontri letterari e festaioli, nei quali abbonda l’uso di cioccolata e caffè durante le conversazioni di ogni tipo, politiche, filosofiche, culturali. Il vino preferito a fine secolo è la “Malvasia”.

Grappoli di Malvasia.


Leopoldo e Carlo Strassoldo a Gorizia frequentano la società di Diana cacciatrice, il “casino dei nobili”, il teatro dell’opera. L’abito lussuoso non denota più diritti feudali ma ricchezza, condivisa con i membri della borghesia in ascesa.
Anche la nobiltà si dedica ad attività finanziarie e mette in movimento il capitale mobile, il denaro, non più focalizzata soltanto sulla rendita fondiaria. Anzi si assiste a speculazioni e alla tendenza a contrarre ingenti debiti (anche da gioco), saldati con la cessione di proprietà, che vengono frazionate. Scrive Luchitta: «Proprio a causa di tali comportamenti “perversi”, è comprensibile che le esazioni imposte dai Francesi all’atto della conquista della Contea Goriziana (1809), mettano in ginocchio molte case aristocratiche, a corto di denaro liquido, e costrette, quindi, a vendere gran parte delle terre. […] alla frammentazione delle tenute signorili, alla mobilità della proprietà terriera e all’ascesa sociale di ricchi borghesi, come i Cassis Faraone di Trieste e i Ritter di Gorizia».
Che dire poi della voce stupefacente trovata nella lista delle spese del convento goriziano succitato, “al contrabbandiere?” Ebbene sì, era un articolo di consumo contemplato! L’autore con molta sagacia cita De Mandeville: «Occorre che esistano la frode, il lusso e la vanità, se noi vogliamo fruirne i frutti».
La lettura del saggio risulta molto vivace e piacevole. Se ne trae un monito: l’aumento dei desideri è cosa buona fintanto che questi non diventano eccessivi. È sempre il troppo, lo squilibrio a cambiare la situazione da uno stato vantaggioso ad uno svantaggioso, se non addirittura drammatico.
Il dominio delle merci ebbe inizio allora, con il grande incremento del commercio mondiale, l’uso di prodotti coloniali, di nuove suppellettili e arredamenti, maioliche e porcellane prima scarse. Nel convento si acquistano fogli di oro e argento per abbellire e rinnovare gli arredi sacri.
Le nuove abitudini aristocratiche favoriscono lo sviluppo della piccola borghesia, tutta una serie di artigiani (costruttori, trasportatori, sarti…) necessari ai nuovi stili di vita.
Oggi l’economia mondiale e il movimento delle merci sono in mano a pochi grandi monopoli, i quali producono, oltre a beni di consumo indotti dalla pubblicità e spesso inutili, anche un eccesso di scarti e di mortale inquinamento.
Forse potremmo avere nostalgia di un semplice piatto di “panada”, minestra di pane del tempo che fu.

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In copertina, la “panada” semplice minestra di pane: non è chiaro se fosse presente sulle tavole dei nobili.

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