di Roberto Zottar

Siamo in pieno Carnevale e avendo già parlato di fritòle a Natale vi dovrei parlare dei crostoli, dolce del nostro strato patrimoniale latino, da crustula, cioè croste di pasta fritta, ma preferisco anticiparvi le tradizioni della Feria quarta cinerum, cioè del Mercoledì delle Ceneri che, secondo la tradizione imposta dal Concilio di Trento, segna l’inizio del periodo del “mangiar di magro” e, per i friulani, della stagione della “renga”, secondo il detto popolare «Pe Cinise si mangje la renghe».
Il “mangiar di magro” prevedeva l’astensione oltre che dai grassi e dai dolci anche dalle carni e, secondo una tradizione popolare, dalle carni degli animali presenti sull’arca di Noè. Sia le Suore Dimesse sia la contesssa Perusini nei loro ricettari riportano una minestra “Sòpe di spàrcs, cesarons, e croz, di vilie” cioè zuppa di vigilia di asparagi piselli e rane; l’uso di rane in un piatto di vigilia ci fa capire che non erano considerate carne, bensì pesce e quindi adatte al precetto di astinenza. Tra i piatti permessi, oltre ai bigoli in salsa di acciuga e cipolle fresche, tipici erano la minestra di “rûz fasùi” , ovvero di soli fagioli, che in altri periodi dell’anno era invece condita con il pestât, il baccalà e le sardelle col radicchio.

I piatti della tradizione:
Come aringhe si usano sia quelle sotto sale, conservate in barili di legno, sia quelle affumicate dal colore dorato. Leggende tramandate parlano di tempi di grande povertà dove la polenta veniva “condita” solo strusciando l’unica aringa affumicata appesa al centro della tavola per tutta la famiglia. La tradizione vuole che l’aringa, prima di esser consumata, vada fatta reidratare per una notte nel latte. Le aringhe si mangiano o crude, previa solo una loro marinatura, o cotte. Posso qui ricordare la frittata (frataia ‘ta la renga”) e la “sevolada cu lis rènghis”, la cipollata con le aringhe, una sorta di savôr servito caldo. La “renghe” o “cospetòn”, e questo termine genera confusione con le sardelle sotto sale, viene anche cotta sotto la cenere, avvolta in carta, con olio, fettine di cipolla e pepe o semplicemente cotta alla griglia e messa sott’olio. Nel Friuli di una volta c’era il rito di andare per osterie a mangiare “renghe e rati”: un abbinamento curioso e quasi dimenticato. Il rati, o ramolaccio, è un tubero dal sapore intenso e piccante, che crudo grattugiato o cotto ben si abbina con l’aringa affumicata. Il suo sapore ricorda quello del ravanello, ma è molto più carico e piccante, tanto che per indicare una persona stizzosa, irosa e “ruvida”, ci si riferisce a questo ortaggio: “jessi un rati”.

Vino:
Un fresco Friulano (ex Tocai) delle nostre Doc.

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In copertina, ecco la tradizionale “cipollata con le aringhe”.

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